Sappiamo primieramente che nell’agosto del 1231 vietò che si vendesse seta cruda, sale, rame e ferro altrove che dalla regia dogana; e nel seguente settembre appropriò tutte le tintorie del regno (431). È probabile che tali novità avessero destato alcun mal umore. Il cronista da Sangermano nel narrare la appropriazione delle tintorie, dice d’esser venuti in Sangermano due giudici, per mettersi in possesso di quella tintoria, che forse aveano tolta a fitto; l’arcivescovo di Reggio ne li vietò per esser propria del monastero di Montecasino. Che oltracciò si fossero accresciute allora le antiche imposte, è manifesto dagli statuti che furono pubblicati nell’ottobre del 1232; nei quali fu prescritto che la gabella sull’immissione ed esportazione delle derrate da ogni terra, sulle mele, le castagne, le noci ed altre frutta, sulla concia delle cuoja, sul vino, sull’erbaggio e la vendita degli animali, sulla percezione, sulla misura delle vettovaglie, sulla tonnina e sardella, sul lino, sulle cannamele, sulla lana di Siria, sul cotone, fossero ridotte alla forma antica; e diminuiti vennero i dazii sul cacio e sul macello (432).
Ma nei tempi d’appresso, in ragione che si accrescevano i suoi bisogni, Federigo, veniva imponendo nuove tasse, che, a distinguerle dalle antiche si dicevano dritti nuovi. Andrea d’Isernia giureconsulto napolitano di quell’età, nei suoi comenti alle costituzioni del regno, descrive quali erano i nuovi e quali gli antichi pesi (433), e dalla somma enorme de’ pesi da lui descritti ben possiamo argomentare quanto infelice era la condizione del regno in quell’età; intantochè lo stesso Isernia, che scrisse sotto Carlo I d’Angiò, ne infamò per questo la memoria, dicendo che, per avere gravato smodatamente i sudditi, l’anima sua riposava in pice e non in pace, e per castigo di Dio, la sua razza era spenta (434).
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