Tale s’era formato il dialetto siciliano per la mischianza della latina e della greca lingua, quando gli Arabi vennero ad aggiungervi le voci bagaredda, dugana, favara, funnacu, garifu, garraffa, gebbia, giarra, giummara, maramma, margia, scilba, sciarra, zabbara, zagara. zibibbu ecc. e dagli Arabi altresì appresero i Siciliani a cambiare le ll in dd pronunziati come li pronunziano gl’Inglesi, onde venne idda, iddu, iddi, e tutte le desinenze de’ diminutivi.
È dunque evidente, che un tal dialetto, che forse cominciò ad esser parlato sin da’ tempi della romana dominazione, nell’età di Federigo esser dovea il linguaggio generale del popolo siciliano, mancante solo delle non poche voci avute dai Francesi, dagli Spagnuoli e da tutti gli stranieri che sventuratamente ne’ tempi di appresso ebbero il dominio dell’isola. Bella prova di ciò è un fatto riferito da Riccardo da Sangermano. Nel 1233 un uomo vestito di rustico sajo, come i frati minori, venne a Sangermano, convocava il popolo suonando un corno, e poi gridava: Benedictu, laudatu et glorificatu lu Patri; Benedictu, laudatu et glorificatu lu Filiu; Benedictu et glorificatu lu Spiritu Santu. E tutti i ragazzi ch’eran presenti rispondeano colle stesse parole (463). Era questo adunque il linguaggio della plebe, non che in Sicilia, ma nelle provincie oltremare; ed è evidente che non poteva essere un linguaggio di fresco introdotto, ma dovea già da lunghi secoli parlarsi. Di che fan prova evidentissima i diplomi di concessioni di feudi de’ re normanni, ne’ quali, additandosi i confini del feudo, che si concedeva, si veggon dati alle contrade nomi siciliani, come: La serpi, la piscaria, la ficu fatua.
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