Ciò è conforme dallo stesso Dante, il quale nell’opera De vulgari eloquio dice da una mano che i primi Siciliani dettarono quelle loro canzoni nel volgare, che non era in nulla differente da quello ch’era laudabilissimo (466); e dall’altra nell’esaminare tutti i dialetti d’Italia, per mostrare di non doversi dare la preferenza ad alcuno, dice che volendo giudicare del volgare siciliano, come si parla dagli idioti di quella terra, non è da preferirsi agli altri, perchè difficile a pronunziarsi; ed in prova ne adduce la canzone di Ciullo d’Alcamo «Trageme deste focora» Se teste a bolontate etc. (467). Nel primo caso parla l’Alighieri della lingua nella quale scrissero Rugerone, Ranieri, Inghilfredi da Palermo, Guido ed Oddo delle Colonne, Stefano protonotaio, Mazzeo Ricco e Tommaso da Messina, Arrigo Testa e Jacopo da Lentini, oltre allo stesso imperadore, a’ suoi figliuoli Enzio e Manfredi, e Pier delle Vigne e tutti i poeti che dalle altre provincie italiane affluivano in quella nobilissima corte, e quindi sparsero in tutta Italia il gusto di poetare in lingua volgare; in che tosto dopo si distinsero Guittone d’Arezzo, Bonagiunta da Lucca, Folcacchiero dei Folcacchieri e Mino Moccato da Siena, Gallo da Pisa, Cino da Pistoja, il B. Jacopone e Francesco Barberino da Todi, Guido Cavalcanti, Brunetto Latini, Guido Lapi, Farinata degli Uberti, Dino Frescobaldi ed altri molte da Firenze, Guido Guinizzello, Guido Ghisolieri, Fabrizio, Onesto, Semprebene, Bernardo, Jacopo della Lana da Bologna.
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