Fatto trasportare a grandi spese le travi dalla Schiavonia, la pietra, l’arena, la calce e gli altri materiali d’altrove; disegnò egli stesso le mura, le piazze, le strade della nuova città e poi fece venire dalla Sicilia e dalla Lombardia due astrologhi, per far loro determinare il giorno opportuno, per gittar la prima pietra nelle fondamenta (485). Pure questo principe era filosofo; ma la filosofia facilmente si affà agli errori del secolo in cui visse: forse i nostri posteri troveranno assai più ridicole della astralogia molte follie alle quali noi ora tenghiamo dietro.
Mentre tali cose si facevano nel continente, un caso accadde in Sicilia, ridevole sulle prime, che poi minacciò di turbare la pubblica tranquillità. Era quivi un accattone, chiamato Giovanni Calcara, il quale avea gran somiglianza a re Federigo imperatore, nè lontana ne era l’età. Come molti in vederlo dicevano di somigliare al difunto monarca, egli da prima ne ridea; ma visto che, tutto ovunque andava accattando tutti dicevano lo stesso, cominciò a farvi disegno sopra; si faceva veder di rado; interrogato della patria e de’ parenti suoi, dava risposte misteriose; il mistero accrebbe la curiosità e la curiosità rese gli uomini crudeli. Com’ebbe così disposti gli animi, si ritirò in una lustra sull’Etna; e per meglio render l’aria del morto sovrano si fece crescere la barba, come quello era solito portarla, e cominciò ad usare modi più dignitosi. Allora cominciò a dire a taluno, come in gran confidenza, l’essere egli veramente lo imperadore; l’essergli stata imposta, per essere assoluto de’ suoi peccati, la penitenza di tapinare nov’anni; per far ciò essersi finta la sua morte, esser di già terminato il tempo della penitenza a lui imposto; aspettare il momento opportuno, per essere riconosciuto e ripigliare l’autorità. Forse alcuna mano secreta, che volea destare nuove turbolenze nel regno, secretamente dirigea le operazioni e le parole del pitocco.
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