Ciò detto, seguito dai cospiratori, si recò in presenza dello Stendardo, il quale, fattogli di presente cavar gli occhi, lo mandò in Catania a morir sulle forche; solo per esser cavaliere, gli fu concesso l’onore d’avere il suo scudo appeso con lui. In pari modo e in pari tempo perirono in Napoli d’ordine di Carlo, Martino e Giacomo di lui fratelli.
Restava ancora in Sicilia il principe Federigo di Spagna, il quale co’ suoi Spagnuoli ed alquanti Tedeschi venne a chiudersi in Girgenti, ove corse ad assediarlo lo Stendardo; ma d’ordine di Carlo si venne a patti. Il principe ebbe dugent’once ed una galea, per traghettare ove gli fosse piaciuto: e ritornò in Tunisi. Il conte Federigo Lanza disperato di potere difendere la Sicilia senza il concorso del Capece e del principe spagnuolo, dopo la morte di Corradino si era ritirato nel suo castello di Sala di Calabria, ove tenne lunga pezza l’assedio degli Angioini; finalmente, fatto cauto della vita, cesse di bel patto il castello e si recò in Romanìa. Restavano ostili al nuovo governo i Saracini di Nocera. Carlo stesso venne ad assediarli; si difesero gran tempo con sommo coraggio; molti ne perirono ne’ continui scontri; anche più ne vennero meno per la fame; i pochi che restavano s’arresero; vennero sparsi in varie città, ove o perirono o cambiarono di fede; e così venne a sparire tale genìa.
Le crudeltà, ch’ebbero allora luogo in Sicilia, potrebbero ascriversi o all’indole feroce dello Stendardo, e alla straordinaria circostanza di dovere ricondurre all’obbedienza un popolo rivoltato; ma non meno atroce ed oppressivo era lo ordinario andamento del governo di Carlo d’Angiò. Tosto come egli giunse in Napoli, dopo la fatal giornata di Benevento, ebbe a se alcuni di coloro, che impiegati erano stati dal passato governo nella pubblica amministrazione, per aver da essi piena contezza dei pesi, cui il regno era stato soggetto; e ben trovò un Gizzolino di Marra da Barletta (nè di tal pessima genìa è stato mai penuria sotto i tristi governi), per opera del quale ebbe esatto registro, non che delle ordinarie contribuzioni legalmente imposte, ma di tutte le angherie, perangherie, collette, taglie, donativi, contribuzioni di guerra, di tutti in somma gli abusi di recente introdotti, ai quali Federigo e Manfredi, per le strette in cui si trovarono, aveano avuto ricorso; e che il primo avea solennemente confessato di essere illegali, col dichiarare nel suo testamento di non essere i Siciliani tenuti a pagare al di là di ciò che pagavano sotto Guglielmo II. Carlo non pensava che l’eccesso della gravezza più che il valore suo e dei suoi, gli aveano reso agevole la conquista del regno; perocchè i baroni, stanchi di tanti pesi illegali, confidando nelle sue promesse di sgravarneli, aveano abbandonato Manfredi; e però, non contento al ridurre a tributi ordinarî e permanenti tutte quelle imposizioni, che rendono più pronta e severa l’esazione, levò di posto tutti coloro, che tenevano cariche del passato governo, ne accrebbe il numero, e vi promosse o Provenzali, o di quei paesani, che pur sempre si trovano peggiori degli stranieri, i quali, datisi ad esigere a capriccio, smungevano il sangue e le midolla de’ popoli (505). Eppure avea Carlo, nel ricevere la corona in Roma, giurato di governare il regno secondo gli statuti di Guglielmo II (506); ma un principe d’indole tanto superba e feroce non poteva esser sincero nel promettere di avere a modello il buon Guglielmo.
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