Ottenuto il regno di Sicilia, non avea egli più mestieri della protezione papale; e ’l regno era solo un primo gradino alla dominazione di tutta l’Italia, che affettava. Comandava in Roma come senatore, in Toscana come vicario imperiale, titolo che nella ebbrietà del favore avea ottenuto dalla romana corte; ed è facile il vedere, come un principe prode e guerriero, ne’ cui eserciti affluivano quanti erano uomini valorosi in Francia, potea di leggieri convertire in propria l’autorità delegata. Al tempo stesso proponeva alle città di Lombardia di riconoscerlo in loro signore, e prometteva di esterminar da per tutto i ghibellini. Un trattato avea conchiuso col cardinale Ottobuono de’ Fieschi ed altri fuorusciti genovesi, per dargli in mano la loro città.
Tutto pareva arridere ai suoi disegni. L’Italia non avea armi da opporre alle sue; la Francia, a lui stretta di sangue, avanti che avversario, lo avrebbe favorito; e Rodolfo di Ausbourgh elevato straordinariamente al trono imperiale, non era in istato di far valere i dritti dell’impero sulla Italia. Ma quella resistenza che Carlo non potea incontrare nelle armi, la trovò nella sagacità degl’Italiani. Coll’estinzione dell’imperial famiglia Hohenstauffen era venuto freddandosi il furore delle due fazioni, che aveano lacerata la Italia; un nuovo sentimento più nobile e maggiormente degno di un popolo a ragione orgoglioso della sua reminiscenza cominciò a destarsi, lo studio, cioè, di mantenere la indipendenza d’Italia, tanto da vicino minacciata dalla forza, dal volere, dall’ambizione di Carlo.
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