Però nulla giovando loro la fortezza del sito, furon dalla sete costretti ad arrendersi.
Indi si diresse il re ad assediar Catanzaro. Vi comandava lo stesso conte di Catanzaro Pietro Ruffo, con iscelta mano di gente provata. Era costui uno dei più bellicosi e potenti signori di quella provincia, e molta parte avea avuto alla catastrofe di Manfredi e di Corradino. L’impresa era da molti tenuta impossibile. Il re, fatto alto alla Roccella, sei miglia di lungi, chiamò a consiglio i suoi capitani. Era fra questi il grand’ammiraglio stretto congiunto del conte; e però volea risparmiargli l’affronto dl una disfatta e ’l pericolo di cader prigione nelle mani del re. Con tale intendimento imprese a distogliere il re dal tentar quell’assedio, mettendo avanti la forte posizione della terra, il valore del conte, le numerose schiere da lui adunate, per cui non era sperabile aver la città d’assalto, e l’assedio avrebbe tratto in lungo d’assai; onde tenea miglior consiglio dirigersi contro Cutrona e’ circostanti paesi, che non poteano opporre molta resistenza: e al fin de’ fatti quel conte, visto d’ogn’intorno già sottomessa la provincia, si sarebbe di per se stesso arreso.
Gli altri capitani, i quali capivano a qual fine colui intendesse, facean broncio, ma non osavan contraddirlo, per paura che se l’impresa fosse fallita, non ne fossero da quel superbo proverbiati. Ma il re, che non meno degli altri conoscea il pensiere di lui, rispose che nel sottomettere i popoli era sempre da cominciare dai più potenti, vinti i quali, la plebe di per se si arrende; ovechè mostrando paura di questi, ardito si fa il volgo, ed oppone quella resistenza che non s’aspettava.
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