Che se mio padre tenne alcun tempo questo regno di Sicilia, ed io seguendone l’esempio credei avervi alcun dritto, quando rinunziai a qualunque ragione poteva avere su tal regno, e ’l romano pontefice mi elesse a gonfaloniere della chiesa, dichiarò nel pubblico concistoro che l’anima del re mio padre sarebbe restata a penare, finchè non fosse restituito il regno al re Carlo d’Angiò. Qui l’animo mio stette lunga pezza in pendente. Duro era per me il cacciar dal regno un fratello, duro di lasciar ne’ tormenti il genitore. Finalmente l’amor di figlio prevalse e m’accinsi all’impresa. Voi ben sapete, che, lungi di sbaldanzire, più audaci ne divennero i Siciliani. Il parlamento vietò a mio fratello di venire ad un colloquio, cui io avealo invitato; la nostra armata fu distrutta nel faro; Giovanni di Loria, che la comandava, fu condannato a perder la testa; e l’arroganza di mio fratello giunse a tale che nel ritirarmi, sfidando fin la tempesta, venne fuori colla sua armata da Messina, m’inseguì sino a Milazzo, per soprapprendermi e darmi battaglia. Ora vengono arditi a sfidarci. È tempo di vendicar tante ingiurie. Pugniamo da forti.»
Nè men di lui impazienti erano di venire alle mani re Federigo ed i Siciliani: anzi tale era la fidanza loro, che non vollero soprastare di poche ore per aspettare altre otto galee del val di Mazzara che Matteo di Termini conducea da Cefalù.
III. - Spuntava il sole del dì 4 luglio 1299, quando le due armate s’affrontarono. La capitana, sulla quale era il re, tenea il centro della linea: vi comandava sulla poppa Bernardo Raimondo de Rebellis conte di Garsiliato, sulla prora Ugone de Empuriis, conte di Squillaci: nel centro Garzia Sanchez, paggio del re tenea la bandiera: il re stesso andava di qua e di là per dar gli ordini ch’eran del caso.
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