Lung’ora si combattè da lontano con saettare e frombare dall’una parte e dall’altra. Gombaldo de Intenziis, giovane avido di gloria, impaziente di segnalarsi, tagliata la fune che legava la sua alle altre galee per tenerle tutte in linea, si spinse fra le galee nemiche. Molte di queste gli si affollarono intorno, molte delle Siciliane si affollarono intorno alle nemiche. Rotto così l’ordine generale, combattevasi alla ventura, ma combattevasi con rabbia estrema. Il valoroso Gombaldo e la sua gente vi faceano mirabili prove. Attaccati alla poppa, alla prora, sui fianchi, da per tutto respingevano i nemici; nè mai venne lor fatto metter piede su quella galea. Nè con minor valore si combatteva altrove. Vedeansi da per tutto i combattenti o schiacciati dai sassi o trafitti dal ferro o spinti in mare nell’attentarsi a saltare sulla galea nemica. Ardea re Federigo di voglia di affrontarsi col fratello: ma l’onde e le galee tramezzate, non permisero che si rinnovasse in quel giorno l’esempio atrocissimo e forse favoloso di Eteocle e Polinice. La natura accrebbe in altro modo l’orrore di quella battaglia. Era uno di quei giorni distinti nell’està di Sicilia, in cui non è comportabile il calore del sole. Pugnavasi nella fitta caldana. Il sole cocente avea riscaldato in modo l’acqua e ’l vino ch’eran sulle navi, che o non valeano ad ammorzare l’interna arsura od anche l’accrescevano. L’ira dei combattenti era divenuta furore. Era già oltre vespro, e la battaglia durava, senza che alcuna delle parti, inviperite del pari per la non aspettata resistenza, mostrasse di cedere.
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