In questo il prode Gombaldo, coperto di ferite, grondante di sangue pur combatteva: finalmente stanco ed oppresso dal caldo, mentre stavasi adagiando sullo scudo per respirare alquanto, anelando spirò. Mancato lui, la sua galea fu presa. In quell’istante sei galee, staccate dall’ammiraglio Loria, assalirono da retro i Siciliani, alcuni dei quali sopraffatti da tale attacco, intimoriti dalla presa della prima galea, si volsero in fuga. Avvistosene il re gridò «Dachè quei codardi ci abbandonano, accostiamo la nostra alla galea di Blasco Alagona; diam dentro all’armata nemica, per cercarvi una morte gloriosa: nè non morremo invendicati.» Ma proferito appena quelle parole, cadde tramortito; e con lui cadde l’animo de’ suoi. In quella confusione il conte di Garsiliato propose di andare a piedi di re Giacomo e presentargli la spada del fratello, anzi che correre il rischio di vederlo morto o prigione per mani plebee. Ma il conte di Squillaci no ’l consentì. Volle piuttosto tentar di sottrarlo colla fuga: e ben gli venne fatto. La capitana con dodici altre galee forzando di remi camparono, sei ne eran fuggite prima, le altre vennero tutte in poter del nemico.
Il feroce ammiraglio Loria, die’ allora libero sfogo alla sua rabbia di vendicare il nipote: passando d’una in una delle prese galee, particolarmente delle messinesi, vi facea alla sua presenza mettere a morte crudelissima que’ nobili che vi trovava: intantochè gli stessi esecutori ne piansero.
Intanto il re, tornato in se stesso, visto tutto perduto e se tratto fuori dalla mischia, volea tornarvi, dicendo esser meglio morire colle armi alla mano che tornare vinto e fuggitivo.
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