Il vecchio Chiaramonte assegnò ad ognuno di quei baroni un tratto delle mura a difendere, provvedendoli di gente, d’armi e di quanto era del caso. Ed egli stesso, carico di anni e gottoso com’era andava attorno sorvegliando e facendo cuore a tutti. E perchè fragile è la pietra di Palermo, fece disfare il selciato di tutte le piazze e ne trasse i ciottoli per iscagliarsi contro i nemici.
Malgrado il contrario parere dei nuovi baroni, il duca di Calabria lasciossi indurre a dar l’assalto alla città dai genovesi, i quali volendo vendicarsi de’ Siciliani, che quarant’anni prima erano iti ad assalire Genova, lo persuasero che vecchie erano e mal costrutte le mure della città, ch’egli colle loro macchine, nella costruzione delle quali erano molto pratichi, le avrebbero presto demolite, onde dar l’ingresso all’esercito. Con tale intendimento, tratto il legname dei tetti delle case e delle chiese dei dintorni di Palermo, scale, gatti, testudini, torri ambulanti ed altre macchine furon costruite. Ma i Palermitani non poltrivano. Non meno esperti dei genovesi ben altre macchine costruivano entro le mura; intantochè ovunque i nemici diressero l’assalto, trovaron le mura gremite di difensori, dietro i quali sorgeano istantaneamente briccole, baliste ed altre torri, dalle quali si scagliavano a furia sassi e faci accese, mentre dalle mura versavasi a ribocco acqua ed olio bollente, pece e zolfo liquefatti, onde ne venivano pesti, scottati, feriti ed accecati gli assalitori, distrutte od incese le macchine loro.
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