Il Moncada accetta il partito e poi si dà a sedurre la gente del barone, per torgli il castello. Avutone lingua il barone, corse a Sortino, mise a morte i traditori precipitandoli giù da’ merli, e poi venne ad insignorirsi di forza del castello di Curcuraci. Corrado Lanza, cacciato da Piazza, Guido Ventimiglia castellano destinatovi dal re, tenne per se la castellania. Uno Spadafora fe’ lo stesso in Randazzo, ed altri altrove. Morta la principessa Eufemia, Bernardo Spadafora corse ad insignorirsi della terra e del castello di Gagliano, che a quella era appartenuto, ed ivi s’afforzò. Gli altri baroni ch’eran vicini al re, e nello Spadafora la causa propria difendeano, persuasero il dabben Federigo a spegner l’incendio, facendo allo Spadafora concessione di quella terra. Il re era ridotto senza autorità, senza forza, senza prerogative, senza erario. I principali baroni, non che usurpare il dominio di tutte le città del demanio, vi esigean per conto loro tutte le rendite che al re si apparteneano. Giacomo Chiaramonte fece coniar moneta col suo nome in Nicosia; lo stesso fece in Isciacca Raimondo Peralta, ed altri altrove. Il re quasi dimentico della sua prerogativa esortava nel 1365 il Peralta ad astenersene, per la ragione che veniva così a violarsi il privilegio della zecca concesso a’ Messinesi. Insomma nel percorrere questo calamitoso periodo della storia siciliana ti perdi, e fra tanta vertigine non sai decidere s’eran più infesti al regno i nemici o gli amici; e se l’autorità sovrana era più vilipesa da’ sudditi ribelli o da coloro, che diceansi fedeli.
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