Catania allora tornò all’obbedienza del re. Il duca di Monblanco venne sottomettendo le altre città. I baroni, sparsi com’erano in tutto il regno, furono l’un dopo l’altro sconfitti ed obbligati a tornare all’obbedienza del re. Ma ciò che raffermò l’autorità di Martino fu la morte accaduta nel 1396 del re Giovanni d’Aragona, per cui quello scettro passò al duca di Monblanco. La certezza, che indi in poi il re in ogni caso preste avrebbe in suo ajuto le forze tutte dei regni di Aragona, fece tornare in capo il cervello ai baroni ed a tutti coloro che volean tentare novità.
Il nuovo re d’Aragona si partì nel dicembre del 1396; ma prima d’allontanarsi, per lo buon andamento del governo di Sicilia, fece vicario del re nel val di Mazara Giacomo Prades, e coadjutori del governo il gran cancelliere Bartolomeo Gioeni, Raimondo Bages, Geraldo Malleone, Guglielmo Talamanca, il suo maggiordomo Antonio del Bosco, Gilberto Talamanca e i due maestri razionali Abbo Filangieri ed Ubertino La Grua. Sopra tutti costoro pose Raimondo Moncada conte di Agosta, il quale per li servizi resi era stato fatto gran giustiziere e marchese di Malta, ed a lui die’ per consiglieri Pietro Serra, vescovo dì Catania, ed Ugone Santapau barone dl Butera.
Composto così il regno e ’l governo, volse l’animo re Martino a riordinare l’antica costituzione del regno, già caduta in tanti anni d’anarchia. A tale oggetto convocò nel febbrajo del 1396 il parlamento in Catania. Ivi fu stanziato che nessuno osasse non seguire gli ordini del re e dei magistrati; che inalienabili fossero le Scarizie e le gabelle ad esse appartenenti; che fossero strettamente conservati i dritti del sovrano sui boschi, sulle saline, sulle spiagge, sul passo dei fiumi, sui luoghi riserbati alle reali cacce; che nessun laico s’ingerisse nelle cose spirituali senza un’ordine speciale del re; che i giudici dovessero amministrar la giustizia anche contro le persone del più alto rango; che spedissero le liti nel minor tempo possibile e si guardassero da illecite esazioni; che fossero rigorosamente osservati gli statuti dell’imperator Federigo e dei re Giacomo e Federigo II; che i prigionieri non esigan dai carcerati nulla oltre la legge; che i castellani non s’intromettano in cosa alcuna oltre i limiti del castello; che nessun magistrato nell’esercizio della sua giurisdizione eccedesse quei confini che le antiche leggi del regno avean fissati; che fosse esente da qualunque gabella il commercio delle vittuaglie nello interno del regno; che tutti i diplomi si spedissero dalla real cancelleria colle forme antiche; che i carlini e le piccole monete si riconiassero di buona lega e con unica impronta; che tutti i magistrati municipali siano annuali; che in tutte le città demaniali si eligessero tanti consiglieri quanti erano i giurati, e gli uni e gli altri venissero eletti coll’antica usanza delle Scarfi ossia a bussolo, che prima di venticinque anni nessuno potesse essere promosso ad alcuna carica; che nessun feudatario, il quale avea nel feudo il mero e misto impero, vietasse agli abitatori del feudo l’appello dal magistrato baronale alla gran corte; che i beni dei ribelli fossero appropriati al fisco, senza che i figli od altri congiunti potessero succedervi; e finalmente che se alcun conte, barone, milite od altra qualsifosse persona attentasse di fare alcun che contro l’autorità sovrana, fattogli legalmente il processo dal tribunale della gran corte e proferita la sentenza, i beni fossero applicati al fisco.
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