Non che i più distinti baroni, ma un grandissimo numero di semplici gentiluomini vollero seguire il re, a loro spese e que’ baroni che restaron nel regno, e le città entro terra venivan somministrando uomini e cavalli.
Lasciò il re sua vicaria nel regno la regina Bianca, alla quale assegnò per assisterla un consiglio composto da Pietro Queralto, il commendatore di Monson, Bartolomeo Gioeni, Luigi Raidal, il maestro portulano, Gabriele Fisaulo, i maestri razionali, i giudici della gran corte e sei deputati che dovean mandarvi Palermo, Messina, Catania, Girgenti, Siracusa e Trapani.
Nell’ottobre del 1408 mosse il giovane re da Trapani; nè la sua impresa fallì la generale espettazione. Addì 1 giugno del 1409 colla sola armata siciliana sconfisse le galee genovesi, che erano andate in soccorso dei Sardi: molte ne prese, e quattro de’ capitani, fatti prigionieri, furono mandati nel castello di Catania. Sulla fine dello stesso mese pari segnalata vittoria ebbe in terra. Venuto alle mani presso il castello di Luri co’ nemici, gli volse in fuga e seimila ne uccise.
Tali, strepitose vittorie misero in ispavento gli stati d’Italia. Già alto suonava il nome di Martino. I Siciliani a ragione speravano, che il loro re era per fare risorgere i giorni gloriosi del suo grand’avo Federigo. Già ei volgeva in mente il progetto di portar le insegne sue vittoriose in Italia, conquistare le provincie napolitane e correre in Roma, per farvi riconoscere l’antipapa spagnuolo: ma ben altrimenti era scritto negli eterni decreti.
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