Per frenare i delitti erasi in quel parlamento stesso stabilito che il capitano e’ giurati d’ogni città dovessero denunziare al governo tutti i gravi misfatti accaduti in quella, meritevoli della pena di morte, di mutilazione di membra o di esilio. Profferita dalla gran corte la sentenza contro tali rei, ove essi non fossero stati presenti, bandissero che fra un’anno, non presentatisi, il tribunale stesso avrebbe profferita la sentenza di fuorgiudizio. Vi volle che baroni facessero lo stesso ne’ luoghi di lor vassallaggio per quei delitti cui si estendea la rispettiva giurisdizione, degli altri ne dessero parte al governo, e, pena once 100, perseguitassero, malgrado qualunque privilegio, i malfattori; e per torre a costoro ogni speranza di scampo, si vietò, non che ai baroni, ma alle chiese stesse d’offrir loro un’asilo (552). Come quel parlamento erasi radunato in una sala terrena del palazzo dell’ostiere in Palermo, quegli statuti vennero poi chiamati «Capitoli della sala terrena.»
Aveano sin dal 1440 i due vicerè Gilberto Centelles conte di Collesano e Battista Platamone ordinata col sacro consiglio una prammatica per fissare il modo di scegliersi i notai, le forme, con cui essi stipular doveano gli atti pubblici, e i diritti che poteano esigere; questa, approvata dal re, venne poi pubblicata nel 1443 dal vicerè Ximenes Durrea.
Ma l’opera, che rese illustre ne’ secoli posteriori il nome di Alfonso, fu il Rito della gran Corte. Erano allora assai incerte le forme che seguivansi dai tribunali; dachè non erano stabilite da alcuna legge scritta, ma da una consuetudine alterata spesso dall’ignoranza o dalla malizia dei curiali, e da scritti di antichi giureconsulti spesso contraddittori e sempre oscuri.
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