Il re a ciò rispose con aderire alla richiesta, purchè l’oro e l’argento da comprarsi fosse presto, e non ne venisse jattura all’erario (567). Propose anche il parlamento, che fosse ritenuta la quinta parte delle rendite dei prelati, che dimoravan fuori del regno, e s’impiegasse in compra d’oro od argento, e ridotto in moneta si restituisse il danaro ai loro procuratori (568).
Non saprebbe in vero capirsi come potea entrare in capo a que’ buoni padri nostri, l’idea, che con tali provvedimenti potea accrescersi la moneta del regno. Impiegar danaro in compra di metalli e farne danaro, era un’operazione affatto inutile. Più sano consiglio mostrò il parlamento nell’esporre al re essere il commercio di Sicilia spento per le vessazioni, cui andavano esposti i bastimenti, che approdavano ne’ nostri porti; per lo proibire capricciosamente l’esportazione; e per lo aumentarsi della tratta: onde chiese che l’esportazione pe’ paesi amici non fosse mai vietata; e che la tratta non si aumentasse. Il re assentì al non aumentarsi della tratta, finchè il frumento valesse meno di tarì diciotto la salma, suo vero e giusto prezzo (569). Dimandò ancora il parlamento, che coloro, che ne avessero ottenuto licenza dal santo padre (vedi fin dove mettevano in que’ tempi il cece i papi), potesser mandar vettovaglie anche a luoghi proibiti (570).
Gli zuccheri di Sicilia cominciavano a non poter più sostenere la concorrenza degli stranieri, la manifattura ne veniva meno di giorno in giorno: il parlamento pregò il re a ridurre a metà per dieci anni il dritto d’esportazione.
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