Giunto in Palermo addì 2 aprile del 1611 (617), trovò la città ingombra di bravi e di sicarî: al quinto giorno del suo arrivo non se ne vide pur uno. Molti ne fe’ carcerare, molti ne sfrattò, gli altri sbiettarono. Era fallito il cassiere del banco pubblico di Palermo. Quel fallimento non potea accadere, se il senato, cui incombe la custodia del banco, non avesse tollerato, che colui tenesse il danaro in casa sua, invece di riporlo nel banco. Il pretore e i senatori ebbero ordine di andar presi nel castello di Termini, da restarvi finchè non avessero consegnato vivo o morto il cassiere: in pochi giorni il cassiere fu preso e condannato.
Usava quel vicerè di percorrere la notte tutto solo la città, travestito ora da accattone, ora da eremita, ora da facchino, e in tal modo veniva in cognizione de’ delitti, che severamente puniva, delle persone bisognose, che poi largamente sovveniva. Maravigliava la gente e non sapea capire come quell’uomo fosse a giorno delle più occulte e minute cose, e quella maraviglia accrebbe il timore del suo nome a segno che nessun malandrino osò più levar la fronte nel regno, nessuno osò ascondergli il vero.
Malgrado i tanti pesi imposti ne’ tempi anteriori dal parlamento, trovò egli la rendita dello stato nel massimo disordine, la spesa ordinaria superava d’assai la rendita. Era parte, e forse la prima, del suo piano il far che l’erario fosse ben provveduto. E però convocato nel maggio del 1612 il parlamento, espose, che il disavanzo della spesa annuale e dell’entrata era per tornare in grave danno del regno; laonde raccomandava al parlamento di darvi riparo, e ’l parlamento, fattosi carico dell’urgenza del caso, offrì uno straordinario donativo di duemilioni e settecentomila scudi, da pagare in nove anni: ed impose parecchie gabelle, per trarsene li trecentomila scudi l’anno, fra le quali quella di un tarì per ogni libbra di seta, che in Sicilia produceasi.
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