La città di Messina, la quale veramente soffriva più delle altre il peso di quel dazio perchè in quel distretto si producea e si produce tuttavia la maggior parte della seta di Sicilia, mise avanti, per andarne esente, il suo privilegio di non contribuire ne’ donativi straordinarî. Il duca d’Ossuna non era tale da piegarsi di leggieri; e sulla speranza, che la sua presenza potesse indurre i Messinesi a pagare il dazio, recossi in Messina. Trovò, che i senatori ed i magistrati erano i più forti propugnatori de’ dritti della città. Minacciò di arrestarli, ma quelli non intimidirono per la minaccia; anzi la plebe, maggiormente stizzita da ciò, levossi in capo. Il vicerè corse a cavallo armato e solo, ove i faziosi eran più forti. Sopraffatti dalla sua presenza e dal suo contegno sgombrarono. Allora, lasciata Messina, si ridusse a Milazzo. Ivi chiamò i senatori, i giudici e ’l fiscale di Messina; giuntivi li fe’ carcerare in quel castello. Venuto poi in Palermo, da un capitan d’armi li fece trasferire ammanettati nelle pubbliche carceri di quella città, Vi giunsero, forse a ragion veduta, di giorno, e mentre destavan l’altrui compassione, mostravan nel volto quella compiacenza, che le anime nobili sentono nel soffrire per la patria.
Non però sbaldanzirono i Messinesi. Spedirono anzi due di loro a Madrid, per difendere in iscritto ed a viva voce il privilegio della città e mostrare la gravezza del dazio. Il vicerè dal canto suo fece scrivere al maestro razionale Pietro Corsetto, che gran fama aveva di valente giureconsulto, al consultore Ferdinando Manete ed all’avvocato fiscale del real patrimonio Giuseppe Napoli una memoria in difesa dell’autorità del parlamento.
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