II. - Nel 1711 il procuratore del vescovo di Lipari avea dato a vendere ad un treccone alcuni ceci tratti dalla decima de’ legumi, che dal vescovo esigeasi in quell’isola. Il treccone ne diede, com’era costume, una giumella a’ grascini; saputosi ciò dal vescovo monsignor Tedeschi, montò in furia, tenendo con ciò lesa l’immunità ecclesiastica; nè valse ad acquetarlo l’avere i grascini restituiti que’ pochi ceci; pretese che di tale restituzione fosse da tutto il magistrato municipale stipulato atto solenne. Il magistrato negossi, il vescovo sciorinò la scomunica maggiore contro i grascini, dichiarandoli Vitandi. Di tal violento procedere, quel governadore die’ parte al marchese di Balbaser vicerè, che allora in Messina trovavasi: il vescovo dal canto suo vi mandò uno dei suoi canonici, per giustificare la sua condotta. Il vicerè non meno avventato del vescovo, saputo il caso, carcerò quel canonico. Il vescovo venne egli stesso in Messina: il vicerè gli fe’ viso d’armi, ordinogli di ritirar la scomunica, se avea cara la grazia del re, ed intanto mise in libertà il canonico.
Tornato il vescovo in Lipari, tutt’altro fece che assolvere dalla scomunica i grascini; per lo che costoro ebbero ricorso al giudice della monarchia, il quale colla potestà di Legato a latere gli assolvè ad cautelam e chiamò a se il giudizio. Il vescovo allora, senza chiederne permesso al vicerè, lasciata secretamente la sua diocesi, portossi in Roma e si die’ a gridare contro il tribunale della monarchia, e, come erasi prima procacciato i ricorsi de’ vescovi di Catania, di Girgenti e di Mazzara, dava a vedere, che tutti i vescovi di Sicilia reclamavano con lui.
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