Nè s’avvedea quel pontefice, che quel diluvio di scomuniche, di monitorî, di brevi e di censure per una giumella di ceci, comechè avessero in quel momento messo lo scompiglio nel regno, al fin de’ fatti mettean l’ultimo colmo al discredito di tali armi.
Il re oppose da prima a quel torrente un contegno tutto sobrio. Tentò tutte le vie di finire alla buona tale briga. Dopo la sua coronazione scrisse una lettera al pontefice, nella quale lo pregava a render la pace alla chiesa di Sicilia; il papa non volle pur vedere la lettera: spedì in Roma persone, per aprir alcuna via all’accomodamento; e queste sul confine dello stato romano furono respinte: vana fu ogni opera del cardinale de Tremouille ambasciatore di Francia: anzi il pontefice, fingendo di cedere alle insinuazioni del cardinale Albani suo nipote, convocò il concistoro de’ cardinali, per sentirne il parere. Tutti dissero dovere il papa desistere dalla pretensione di abolirsi il tribunale della monarchia in Sicilia ed impegnarsi piuttosto a farne correggere gli abusi. Lungi di arrendersi a tale avviso, nel febbraro del 1715 pubblicò la famosa bolla, con cui dichiarava abolito quel tribunale.
Perdè allora la pazienza il re. Avea egli prima di allontanarsi dal regno eretta una giunta di sei magistrati, la quale senza dipendere da veruna autorità dovea impedire l’esecuzione di tutti i decreti di Roma, che ferivano la prerogativa contesa. Saputa poi in Turino la pubblicazione della bolla, spedì ordine alla giunta di procedere col massimo rigore e senza la ordinaria formalità di giudizio contro tutti coloro che davano mano ad introdurre in Sicilia i brevi pontificî o gli eseguivano.
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