Il mio dotto amico Nicolò Palmeri di acerba e cara ricordanza, tutto intento all’istoria civile di Sicilia, sfiorandone appena la letteraria, come oggetto accessorio, non potè esaminar con la sua consueta sagacissima critica alcune quistioni oscure e involucrate, che riguardan quest’ultima. Quindi asserì che la rettorica di Corace consistea nell’arte di trovare sofismi più presto che argomenti, ed adduce in prova la sfida, che ebbe col suo scolare Tisia di un dilemma capzioso; onde il primo ottenesse, e l’altro schivasse di pagargli la pattuita mercede dell’insegnamento.
Però con quel rispetto, che si debbe al Palmeri, io intendo valermi della stessa libertà, che mi accordava vivente ad oppuguare alcune sue opinioni, in questa che riguarda Corace e Tisia da lui poco apprezzati.
Costoro non furon soltanto, come egli crede, sottili e spregevoli sofisti, e quel dilemma loro attribuito appartiene a Protagora di Abdera e ad Evatlo suo discepolo, secondo riferisce Aulio Gellio (678). E siccome Protagora, cacciato da Atene per aver proclamato sfacciatamente l’ateismo, erasi ricoverato in Sicilia, rimanendo qui memoria di quella strana argomentazione, in tempi posteriori fu attribuita a Corace e Tisia, che si eran già resi famosi nella oratoria giudiciale e popolare.
L’arte sofistica, abuso della rettorica, esercitata di proposito e insegnata sistematicamente per precetti, sorse indi con Gorgia Leontino, il quale abbacinò Atene colle sue sfolgoranti ed armoniose arringhe, e col suo possente e rigoglioso ingegno, onde talvolta sosteneva il prò, e talora il contro sullo stesso argomento.
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