È un òdio che suòl prèndere la gravità del linguaggio filosofico; sono calde declamazioni contro il lusso, contro l'ingiustizia delle sproporzionate fortune, contro l'arroganza de' felici potènti; è una sete apparentemente magnanima d'eguaglianza, di sollièvo a tante miserie dell'umanità. Tutto ciò non t'illuda, sebbène t'avvènga di udirlo da gènte di qualche grido, e tu lo lègga in cènto eloquentissimi pedanti che mèrcano l'applauso delle turbe, adulandole. In quei frèmiti v'è più invidia, ignoranza e calunnia che zèlo pel giusto.
L'ineguaglianza delle fortune è inevitabile, e ne derivano mali e bèni. Chi tanto maledice il ricco si metterebbe volentièri al suo posto: tanto fa che rimanga nell'opulènza chi vi si tròva. Pochissimi sono quei ricchi che non ispèndono il loro òro; e spendèndolo, divèntano tutti in migliaia di guise, con più o meno mèrito, ed anche talvòlta senza mèrito, cooperatori del bèn pubblico. Danno mòto al commèrcio, allo ingentilintento del gusto, alla gara delle arti, alle infinite speranze di chi vuòl fuggire la povertà mediante l'industria.
Non saper vedere in essi che òzio, mollezza, inutilità è stolta caricatura. Se l'òro impigrisce gli uni, spinge gli altri a degne azioni. Non v'è città colta del mondo dove i ricchi non abbiano fondato e non conservino istituti importanti di beneficènza; non v'è luogo alcuno dove non sieno, e per associazioni ed individualmente, i sostenitori del misero.
Guardali quindi senza ira, come senza invidia, e non ripetere le denigrazioni del volgo.
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