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      Inoltre io era più lontano dalla mia famiglia, e non avea più di essa notizie. Le facce nuove ch'io vedeva non m'erano antipatiche, ma serbavano una serietà quasi spaventata. La fama aveva esagerato loro le trame dei Milanesi e del resto d'Italia per l'indipendenza, e dubitavano ch'io fossi uno dei più imperdonabili motori di quel delirio. La mia piccola celebrità letteraria era nota al custode, a sua moglie, alla figlia, ai due figli maschi, e persino ai due secondini: i quali tutti, chi sa che non s'immaginassero che un autore di tragedie fosse una specie di mago?
      Erano serii, diffidenti, avidi ch'io loro dessi maggior contezza di me, ma pieni di garbo.
      Dopo i primi giorni si mansuefecero tutti, e li trovai buoni. La moglie era quella che più manteneva il contegno ed il carattere di carceriere. Era una donna di viso asciutto asciutto, verso i quarant'anni, di parole asciutte asciutte, non dante il minimo segno d'essere capace di qualche benevolenza ad altri che ai suoi figli.
      Solea portarmi il caffè, mattina e dopo pranzo, acqua, biancheria, ecc. La seguivano ordinariamente sua figlia, fanciulla di quindici anni, non bella ma di pietosi sguardi, e i due figliuoli, uno di tredici, l'altro di dieci. Si ritiravano quindi colla madre, ed i tre giovani sembianti si rivoltavano dolcemente a guardarmi chiudendo la porta. Il custode non veniva da me se non quando aveva da condurmi nella sala ove si adunava la Commissione per esaminarmi. I secondini venivano poco perché attendevano alle prigioni di polizia, collocate ad un piano inferiore, ov'erano sempre molti ladri.


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Le mie prigioni
di Silvio Pellico
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