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      La madre e la sorella, che allorché c'erano i ragazzi si fermavano anche spesso a favellar meco, or non comparivano più se non per portarmi il caffè, e mi lasciavano. Per la madre mi rincresceva poco, perché non mostrava animo compassionevole. Ma la figlia, benché bruttina, avea certa soavità di sguardi e di parole che non erano per me senza pregio Quando questa mi portava il caffè e diceva: "L'ho fatto io", mi pareva sempre eccellente. Quando diceva: "L'ha fatto la mamma", era acqua calda.
      Vedendo sì di rado creature umane, diedi retta ad alcune formiche che venivano sulla mia finestra, le cibai sontuosamente, quelle andarono a chiamare un esercito di compagne, e la finestra fu piena di siffatti animali. Diedi parimente retta ad un bel ragno che tappezzava una delle mie pareti. Cibai questo con moscerini e zanzare, e mi si amicò sino a venirmi sul letto e sulla mano e prendere la preda dalle mie dita.
      Fossero quelli stati i soli insetti che m'avessero visitato! Eravamo ancora in primavera, e già le zanzare si moltiplicavano, posso proprio dire, spaventosamente. L'inverno era stato di una straordinaria dolcezza, e, dopo pochi venti in marzo, seguì il caldo. È cosa indicibile, come s'infocò l'aria del covile ch'io abitava. Situato a pretto mezzogiorno, sotto un tetto di piombo, e colla finestra sul tetto di S. Marco, pure di piombo, il cui riverbero era tremendo, io soffocava. Io non avea mai avuto idea d'un calore sì opprimente. A tanto supplizio s'aggiungeano le zanzare in tal moltitudine, che per quanto io m'agitassi e ne struggessi io n'era coperto; il letto, il tavolino, la sedia, il suolo, le pareti, la volta, tutto n'era coperto, e l'ambiente ne conteneva infinite, sempre andanti e venienti per la finestra e facienti un ronzio infernale.


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Le mie prigioni
di Silvio Pellico
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S. Marco