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      Non m'accadde però mai alcuna visita siffatta, e niuno s'accorgeva ch'io passassi così bene il mio tristissimo tempo. Quand'io udiva il custode o altri aprire la porta, copriva il tavolino con una tovaglia, e vi mettea sopra il calamaio ed il legale quinternetto di carta.
     
      CAPO XXVIII
     
      Quel quinternetto aveva anche alcune delle mie ore a lui consacrate, e talvolta un intero giorno od un'intera notte. Ivi scriveva io di cose letterarie. Composi allora l'Ester d'Engaddi e l'Iginia d'Asti, e le cantiche intitolate: Tancreda, Rosilde, Eligi e Valafrido, Adello, oltre parecchi scheletri di tragedie e di altre produzioni, e fra altri quello d'un poema sulla Lega lombarda, e d'un altro su Cristoforo Colombo.
      Siccome l'ottenere che mi si rinnovasse il quinternetto, quand'era finito, non era sempre cosa facile e pronta, io faceva il primo getto d'ogni componimento sul tavolino o su cartaccia in cui mi facea portare fichi secchi o altri frutti. Talvolta dando il mio pranzo ad uno dei secondini, e facendogli credere ch'io non aveva punto appetito, io l'induceva a regalarmi qualche foglio di carta. Ciò avveniva solo in certi casi, che il tavolino era già ingombro di scrittura, e non poteva ancora decidermi a raschiarla. Allora io pativa la fame, e sebbene il custode avesse in deposito denari miei, non gli chiedea in tutto il giorno da mangiare, parte perché non sospettasse ch'io avea dato via il pranzo, parte perché il secondino non s'accorgesse ch'io aveva mentito assicurandolo della mia inappetenza.


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Le mie prigioni
di Silvio Pellico
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