Alfine, dopo un eloquente elogio sulla sincerità, mi dimandava perdono se non potea nascondermi il dispiacere che avea provato, ravvisando in me, diceva egli, una certa scrupolosa titubanza, una certa cristiana sottigliezza di coscienza, che non può accordarsi con vera filosofia.
Vi stimerò sempresoggiungeva egli "quand'anche non possiamo accordarci su ciò; ma la sincerità che professo mi obbliga a dirvi che non ho religione, che le abborro tutte, che prendo per modestia il nome di Giuliano perché quel buon imperatore era nemico de' Cristiani, ma che realmente io vado molto più in là di lui. Il coronato Giuliano credeva in Dio, ed aveva certe sue bigotterie. Io non ne ho alcuna, non credo in Dio, pongo ogni virtù nell'amare la verità e chi la cerca, e nell'odiare chi non mi piace."
E di questa foggia continuando, non recava ragioni di nulla, inveiva a dritto e a rovescio contro il Cristianesimo, lodava con pomposa energia l'altezza della virtù irreligiosa, e prendeva con istile parte serio e parte faceto a far l'elogio dell'imperatore Giuliano per la sua apostasia e pel filantropico tentativo di cancellare dalla terra tutte le tracce del Vangelo.
Temendo quindi d'aver troppo urtate le mie opinioni, tornava a dimandarmi perdono e a declamare contro la tanto frequente mancanza di sincerità. Ripeteva il suo grandissimo desiderio di stare in relazione con me, e mi salutava.
Una poscritta diceva: "Non ho altri scrupoli, se non di non essere schietto abbastanza. Non posso quindi tacervi di sospettare che il linguaggio cristiano che teneste meco sia finzione.
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