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      Noi non ci amiamo. Ci scriveremo per trastullare ciascuno se stesso, mettendo sulla carta liberamente tutto ciò che ci viene in capo: voi le vostre immaginazioni serafiche ed io le mie bestemmie; voi le vostre estasi sulla dignità dell'uomo e della donna, io l'ingenuo racconto delle mie profanazioni; sperando io di convertir voi, e voi di convertir me. Rispondetemi se vi piaccia il patto."
      Risposi: "Il vostro non è un patto, ma uno scherno. Abbondai in buon volere con voi. La coscienza non mi obbliga più ad altro che ad augurarvi tutte le felicità per questa e per l'altra vita".
      Così finì la mia clandestina relazione con quell'uomo - chi sa? - forse più inasprito dalla sventura e delirante per disperazione, che malvagio.
     
      CAPO XLII
     
      Benedissi un'altra volta davvero la solitudine, ed i miei giorni passarono di nuovo per alcun tempo senza vicende.
      Finì la state; nell'ultima metà di settembre, il caldo scemava. Ottobre venne; io mi rallegrava allora d'avere una stanza che nel verno doveva esser buona. Ecco una mattina il custode che mi dice avere ordine di mutarmi di carcere.
      E dove si va?
      A pochi passi, in una camera più fresca.
      E perché non pensarci quand'io moriva dal caldo, e l'aria era tutta zanzare, ed il letto era tutto cimici?
      Il comando non è venuto prima.
      Pazienza, andiamo.
      Bench'io avessi assai patito in quel carcere, mi dolse di lasciarlo; non soltanto perché nella fredda stagione doveva essere ottimo, ma per tanti perché. Io v'avea quelle formiche, ch'io amava e nutriva con sollecitudine, se non fosse espressione ridicola, direi quasi paterna.


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Le mie prigioni
di Silvio Pellico
pagine 201