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      Prendea la penna per comporre qualche verso o per attendere ad altra cosa letteraria, ed una forza irresistibile parea costringermi a scrivere tutt'altro. Che? lunghe lettere ch'io non poteva mandare; lunghe lettere alla mia cara famiglia, nelle quali io versava tutto il mio cuore. Io le scriveva sul tavolino, e poi le raschiava. Erano calde espressioni di tenerezza, e rimembranze della felicità ch'io aveva goduto presso genitori, fratelli e sorelle così indulgenti, così amanti. Il desiderio ch'io sentiva di loro m'ispirava un'infinità di cose appassionate. Dopo avere scritto ore ed ore, mi restavano sempre altri sentimenti a svolgere.
      Questo era, sotto una nuova forma, un ripetermi la mia biografia, ed illudermi ridipingendo il passato; un forzarmi a tener gli occhi sul tempo felice che non era più. Ma, oh Dio! quante volte, dopo aver rappresentato con animatissimo quadro un tratto della mia più bella vita, dopo avere inebbriata la fantasia fino a parermi ch'io fossi colle persone a cui parlava, mi ricordava repentinamente del presente, e mi cadea la penna ed inorridiva! Momenti veramente spaventosi eran quelli! Aveali già provati altre volte, ma non mai con convulsioni pari a quelle che or mi assalivano.
      Io attribuiva tali convulsioni e tali orribili angosce al troppo eccitamento degli affetti, a cagione della forma epistolare ch'io dava a quegli scritti, e del dirigerli a persone si care.
      Volli far altro, e non potea; volli abbandonare almeno la forma epistolare, e non potea.


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Le mie prigioni
di Silvio Pellico
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Dio