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      Il presidente lodò la mia tranquillità, e mi consigliò a serbarla sempre, dicendomi che da questa tranquillità potea dipendere l'essere forse, fra due o tre anni, creduto meritevole di maggior grazia. (Invece di due o tre, furono poi molti di più.)
      Anche gli altri giudici mi volsero parole di gentilezza e di speranza. Ma uno di loro che nel processo m'era ognora sembrato molto ostile, mi disse alcun che di cortese che pur pareami pungente; e quella cortesia giudicai che fosse smentita dagli sguardi, ne' quali avrei giurato essere un riso di gioia e d'insulto.
      Or non giurerei più che fosse così: posso benissimo essermi ingannato. Ma il sangue allora mi si rimescolò, e stentai a non prorompere in furore. Dissimulai, e mentre ancora mi lodavano della mia cristiana pazienza, io già l'aveva in segreto perduta.
      Dimanidisse l'inquisitore "ci rincresce di doverle annunciare la sentenza in pubblico; ma è formalità impreteribile."
      Sia puredissi.
      Da quest'istante le concediamosoggiunse "la compagnia del suo amico."
      E chiamato il custode, mi consegnarono di nuovo a lui, dicendogli che fossi messo con Maroncelli.
     
      CAPO LII
     
      Qual dolce istante fu per l'amico e per me il rivederci, dopo un anno e tre mesi di separazione e di tanti dolori! Le gioie dell'amicizia ci fecero quasi dimenticare per alcuni istanti la condanna.
      Mi strappai nondimeno tosto dalle sue braccia, per prendere la penna e scrivere a mio padre. Io bramava ardentemente che l'annuncio della mia triste sorte giungesse alla famiglia da me, piuttosto che da altri, affinché lo strazio di quegli amati cuori venisse temperato dal mio linguaggio di pace e di religione.


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Le mie prigioni
di Silvio Pellico
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Maroncelli