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      Stetti più di mezz'ora in uno stato che parea svenimento, eppur non era. Non potea parlare, i miei polsi battevano appena, un sudor freddo m'inondava da capo a piedi, e ciò non ostante intendeva tutte le parole di Schiller, ed avea vivissima la ricordanza del passato e la cognizione del presenteIl comando del soprintendente e la vigilanza delle guardie avean tenuto fino allora tutte le vicine carceri in silenzio. Tre o quattro volte io aveva inteso intonarsi qualche cantilena italiana, ma tosto era soppressa dalle grida delle sentinelle. Ne avevamo parecchie sul terrapieno sottoposto alle nostre finestre, ed una nel medesimo nostro corridoio, la quale andava continuamente orecchiando alle porte e guardando agli sportelli per proibire i romori.
      Un giorno, verso sera (ogni volta che ci penso mi si rinnovano i palpiti che allora mi si destarono), le sentinelle, per felice caso, furono meno attente, ed intesi spiegarsi e proseguirsi, con voce alquanto sommessa ma chiara, una cantilena nella prigione contigua alla mia.
      Oh qual gioia, qual commozione m'invase!
      M'alzai dal pagliericcio, tesi l'orecchio, e quando tacque proruppi in irresistibile pianto.
      Chi sei, sventurato?
      gridai "chi sei? Dimmi il tuo nome. Io sono Silvio Pellico."
      Oh Silvio!
      gridò il vicino "io non ti conosco di persona, ma t'amo da gran tempo. Accòstati alla finestra, e parliamoci a dispetto degli sgherri."
      M'aggrappai alla finestra, egli mi disse il suo nome, e scambiammo qualche parola di tenerezza.
      Era il conte Antonio Oroboni, nativo di Fratta presso Rovigo, giovine di ventinove anni.


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Le mie prigioni
di Silvio Pellico
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