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      dissi a Schiller.
      Conviene che gli dicessi queste parole assai sgarbatamente: quel ruvido buon uomo se ne offese.
      A lei spiacegridò "d'essersi esposta ad un rifiuto, e a me spiace ch'ella sia meco superba!"
      Poi continuò una lunga predica: "I superbi fanno consistere la loro grandezza in non esporsi a rifiuti, in non accettare offerte, in vergognarci di mille inezie. Alle Eseleien! tutte asinate! vana grandezza! ignoranza della vera dignità! E la vera dignità sta, in gran parte, in vergognare soltanto delle male azioni!".
      Disse, uscì, e fece un fracasso infernale colle chiavi.
      Rimasi sbalordito. "Eppure quella rozza schiettezza" dissi "mi piace. Sgorga dal cuore come le sue offerte, come i suoi consigli, come il suo compianto. E non mi predicò egli il vero? A quante debolezze non do io il nome di dignità, mentre non sono altro che superbia?"
      All'ora di pranzo, Schiller lasciò che il condannato Kunda portasse dentro i pentolini e l'acqua, e si fermò sulla porta. Lo chiamai.
      Non ho temporispose asciutto asciutto.
      Discesi dal tavolaccio, venni a lui e gli dissi: "Se volete che il mangiare mi faccia buon pro, non mi fate quel brutto ceffo".
      E qual ceffo ho da fare?
      dimandò rasserenandosi.
      D'uomo allegro, d'amicorisposi.
      Viva l'allegria!
      sclamò. "E se, perché il mangiare le faccia buon pro, vuole anche vedermi ballare, eccola servita."
      E misesi a sgambettare colle sue magre e lunghe pertiche sì piacevolmente che scoppiai dalle risa. Io ridea, ed avea il cuore commosso.
     
      CAPO LXVIII
     
      Una sera, Oroboni ed io stavamo alla finestra, e ci dolevamo a vicenda d'essere affamati.


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Le mie prigioni
di Silvio Pellico
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