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      Che faceva io in tanta solitudine?
      Ecco tutta quanta la mia vita in que' giorni. Io m'alzava sempre all'alba, e, salito in capo del tavolaccio, m'aggrappava alle sbarre della finestra, e diceva le orazioni. Oroboni già era alla sua finestra o non tardava di venirvi. Ci salutavamo; e l'uno e l'altro continuava tacitamente i suoi pensieri a Dio. Quanto erano orribili i nostri covili, altrettanto era bello lo spettacolo esterno per noi. Quel cielo, quella campagna, quel lontano muoversi di creature nella valle, quelle voci delle villanelle, quelle risa, que' canti ci esilaravano, ci facevano più caramente sentire la presenza di Colui ch'è sì magnifico nella sua bontà, e del quale avevamo tanto di bisogno.
      Veniva la visita mattutina delle guardie. Queste davano un'occhiata alla stanza per vedere se tutto era in ordine, ed osservavano la mia catena, anello per anello, a fine d'assicurarsi che qualche accidente o qualche malizia non l'avesse spezzata o piuttosto (dacché spezzar la catena era impossibile) faceasi questa ispezione per obbedire fedelmente alle prescrizioni di disciplina. S'era giorno che venisse il medico, Schiller dimandava se si voleva parlargli, e prendea nota.
      Finito il giro delle nostre carceri, tornava Schiller ed accompagnava Kunda, il quale aveva l'ufficio di pulire ciascuna stanza.
      Un breve intervallo, e ci portavano la colezione. Questa era un mezzo pentolino di broda rossiccia, con tre sottilissime fettine di pane; io mangiava quel pane e non beveva la broda.
      Dopo ciò mi poneva a studiare.


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Le mie prigioni
di Silvio Pellico
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