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      Ma se ora mi si concede un prete, t'assicuro che mi confesserò di cuore e perdonando a tutti."
      Il cielo ti benedica!
      sclamò "tu mi dài una grande consolazione. Facciamo, si, facciamo il possibile entrambi per essere eternamente uniti nella felicità, come lo fummo in questi giorni di sventura!"
      Il giorno appresso l'aspettai alla finestra e non venne. Seppi da Schiller ch'egli era ammalato gravemente.
      Otto o dieci giorni dopo, egli stava meglio, e tornò a salutarmi. Io dolorava, ma mi sostenea. Parecchi mesi passarono, sì per lui che per me, in queste alternative di meglio e di peggio.
     
      CAPO LXXIII
     
      Potei reggere sino al giorno 11 di gennaio 1823. La mattina m'alzai con mal di capo non forte, ma con disposizione al deliquio. Mi tremavano le gambe, e stentava a trarre il fiato.
      Anche Oroboni, da due o tre giorni, stava male, e non s'alzava.
      Mi portano la minestra, ne gusto appena un cucchiaio, poi cado privo di sensi. Qualche tempo dopo, la sentinella del corridoio guardò per accidente dallo sportello, e vedendomi giacente a terra, col pentolino rovesciato accanto a me, mi credette morto, e chiamò Schiller.
      Venne anche il soprintendente, fu chiamato subito il medico, mi misero a letto. Rinvenni a stento.
      Il medico disse ch'io era in pericolo, e mi fece levare i ferri. Mi ordinò non so qual cordiale, ma lo stomaco non poteva ritener nulla. Il dolor di capo cresceva terribilmente.
      Fu fatta immediata relazione al governatore, il quale spedì un corriere a Vienna, per sapere come io dovessi essere trattato.


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Le mie prigioni
di Silvio Pellico
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