Mi limitai a pregare colla più grande tenerezza genitori, fratelli e sorelle, che si rassegnassero alla mia sorte, protestando loro d'essere rassegnato.
Quella lettera fu nondimeno spedita, come poi seppi allorché dopo tanti anni rividi il tetto paterno. L'unica fu dessa che in sì lungo tempo della mia captività i cari parenti potessero avere da me. Io da loro non n'ebbi mai alcuna: quelle che mi scrivevano furono sempre tenute a Vienna. Egualmente privati d'ogni relazione colle famiglie erano gli altri compagni di sventura.
Dimandammo infinite volte la grazia d'avere almeno carta e calamaio per istudiare, e quella di far uso de' nostri denari per comprar libri. Non fummo esauditi mai.
Il governatore continuava frattanto a permettere che leggessimo i libri nostri.
Avemmo anche, per bontà di lui, qualche miglioramento di cibo, ma ahi! non fu durevole. Egli avea consentito che invece d'esser provveduti dalla cucina del trattore delle carceri, il fossimo da quella del soprintendente. Qualche fondo di più era da lui stato assegnato a tal uso. La conferma di queste disposizioni non venne; ma intanto che durò il beneficio, io ne provai molto giovamento. Anche Maroncelli racquistò un po' di vigore. Per l'infelice Oroboni era troppo tardi!
Quest'ultimo era stato accompagnato, prima coll'avvocato Solera, indi col sacerdote D. Fortini.
Quando fummo appaiati in tutte le carceri, il divieto di parlare alle finestre ci fu rinnovato, con minaccia, a chi contravvenisse, d'essere riposto in solitudine.
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