Fu assistito dal concaptivo D. Fortini e dall'abate Paulowich, venuto in fretta di Vienna quando si seppe ch'era moribondo.
Bench'io non mi fossi vincolato con lui così strettamente come con Oroboni, pur la sua morte mi afflisse molto. Io sapeva ch'egli era amato colla più viva tenerezza da' genitori e da una sposa! Per lui, era più da invidiarsi che da compiangersi; ma que' superstiti!...
Egli era anche stato mio vicino sotto i Piombi; Tremerello m'avea portato parecchi versi di lui, e gli avea portati de' miei. Talvolta regnava in que' suoi versi un profondo sentimento.
Dopo la sua morte mi parve d'essergli più affezionato che in vita, udendo dalle guardie quanto miseramente avesse patito. L'infelice non poteva rassegnarsi a morire, sebbene religiosissimo. Provò al più alto grado l'orrore di quel terribile passo, benedicendo però sempre il Signore, e gridandogli con lagrime:
Non so conformare la mia volontà alla tua, eppur voglio conformarla; opera tu in me questo miracolo!
Ei non aveva il coraggio d'Oroboni, ma lo imitò, protestando di perdonare a' nemici.
Alla fine di quell'anno (era il 1826) udimmo una sera nel corridoio il romore mal compresso di parecchi camminanti. I nostri orecchi erano divenuti sapientissimi a discernere mille generi di romori. Una porta viene aperta; conosciamo essere quella ov'era l'avvocato Solera. Se n'apre un'altra: è quella di Fortini. Fra alcune voci dimesse, distinguiamo quella del direttore di polizia. "Che sarà? Una perquisizione ad ora sì tarda? e perché?"
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