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      Tutti i termini calcolabili passarono, e grazia non rifulse. Intanto, già prima dell'uscita di Solera e Fortini, era venuto al mio povero Maroncelli un tumore al ginocchio sinistro. In principio il dolore era mite, e lo costringea soltanto a zoppicare. Poi stentava a trascinare i ferri, e di rado usciva a passeggio. Un mattino d'autunno gli piacque d'uscir meco per respirare un poco d'aria: v'era già neve; ed in un fatale momento ch'io nol sosteneva, inciampò e cadde. La percossa fece immantinente divenire acuto il dolore del ginocchio. Lo portammo sul suo letto; ei non era più in grado di reggersi. Quando il medico lo vide, si decise finalmente a fargli levare i ferri. Il tumore peggiorò di giorno in giorno, e divenne enorme e sempre più doloroso. Tali erano i martirii del povero infermo, che non potea aver requie né in letto né fuor di letto.
      Quando gli era necessità muoversi, alzarsi, porsi a giacere, io dovea prendere colla maggior delicatezza possibile la gamba malata, e trasportarla lentissimamente nella guisa che occorreva. Talvolta, per fare il più piccolo passaggio da una posizione all'altra ci volevano quarti d'ora di spasimo.
      Sanguisughe, fontanelle, pietre caustiche, fomenti ora asciutti, or umidi, tutto fu tentato dal medico. Erano accrescimenti di strazio, e niente più. Dopo i bruciamenti colle pietre si formava la suppurazione. Quel tumore era tutto piaghe; ma non mai diminuiva, non mai lo sfogo delle piaghe recava alcun lenimento al dolore.
      Maroncelli era mille volte più infelice di me; nondimeno, oh quanto io pativa con lui!


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Le mie prigioni
di Silvio Pellico
pagine 201

   





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