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      Dopo i quali fummo ricondotti nel nostro carcere; questo per altro ci venne ampliato, facendo cioè un'apertura al muro ed unendo la nostra antica tanai a quella già abitata da Oroboni e poi da Villa.
      Io trasportai il mio letto al luogo medesimo ov'era stato quello d'Oroboni, ov'egli era morto. Quest'identità di luogo m'era cara; pareami di essermi avvicinato a lui. Sognava spesso di lui, e pareami che il suo spirito veramente mi visitasse e mi rasserenasse con celesti consolazioni.
      Lo spettacolo orribile di tanti tormenti sofferti da Maroncelli, e prima del taglio della gamba, e durante quell'operazione, e dappoi, mi fortificò l'animo. Iddio, che m'avea dato sufficiente salute nel tempo della malattia di quello, perché le mie cure gli erano necessarie, me la tolse allorch'egli poté reggersi sulle grucce.
      Ebbi parecchi tumori glandulari dolorosissimi. Ne risanai, ed a questi successero affanni di petto, già provati altre volte ma ora più soffocanti che mai, vertigini e dissenterie spasmodiche.
      È venuta la mia voltadiceva tra me. "Sarò io meno paziente del mio compagno?"
      M'applicai quindi ad imitare, quant'io sapea, la sua virtù.
      Non v'è dubbio che ogni condizione umana ha i suoi doveri. Quelli d'un infermo sono la pazienza, il coraggio e tutti gli sforzi per non essere inamabile a coloro che gli sono vicini.
      Maroncelli, sulle sue povere grucce, non avea più l'agilità d'altre volte, e rincresceagli, temendo di servirmi meno bene. Ei temeva inoltre che, per risparmiargli i movimenti e la fatica, io non mi prevalessi de' suoi servigi quanto mi abbisognava.


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Le mie prigioni
di Silvio Pellico
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