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      Il governo, quando seppe che Maroncelli era affetto da quel terribile male, paventò nuova epidemia scorbutica e consentì all'inchiesta del medico, il quale diceva non esservi rimedio efficace per Maroncelli se non l'aria aperta, e consigliava di tenerlo il meno possibile entro la stanza.
      Io, come contubernale di questo, ed anche infermo di discrasia, godetti lo stesso vantaggio.
      In tutte quelle ore che il passeggio non era occupato da altri, cioè da mezz'ora avanti l'alba per un paio d'ore, poi durante il pranzo, se così ci piaceva, indi per tre ore della sera sin dopo il tramonto, stavamo fuori. Ciò pei giorni feriali. Ne' festivi, non essendovi il passeggio consueto degli altri, stavamo fuori da mattina a sera, eccettuato il pranzo.
      Un altro infelice, di salute danneggiatissima, e di circa settant'anni, fu aggregato a noi, reputandosi che l'ossigeno potessegli pur giovare. Era il signor Costantino Munari, amabile vecchio, dilettante di studi letterari e filosofici, e la cui società ci fu assai piacevole.
      Volendo computare la mia pena non dall'epoca dell'arresto ma da quella della condanna, i sette anni e mezzo finivano nel 1829 ai primi di luglio, secondo la firma imperiale della sentenza, ovvero ai 22 d'agosto, secondo la pubblicazione.
      Ma anche questo termine passò, e morì ogni speranza.
      Fino allora Maroncelli, Munari ed io facevamo talvolta la supposizione di rivedere ancora il mondo, la nostra Italia, i nostri congiunti; e ciò era materia di ragionamenti pieni di desiderio, di pietà e d'amore.


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Le mie prigioni
di Silvio Pellico
pagine 201

   





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