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      Da quella parte l'entrata in Italia non è dilettosa all'occhio ed anzi si scende da bellissime montagne del paese tedesco a pianura itala per lungo tratto sterile ed inamena; cosicché i viaggiatori che non conoscono ancora la nostra penisola, ed ivi passano, ridono della magnifica idea che se n'erano fatta, e sospettano d'essere stati burlati da coloro onde l'intesero tanto vantare.
      La bruttezza di quel suolo contribuiva a rendermi più tristo. Il rivedere il nostro cielo, l'incontrare facce umane di forma non settentrionale, l'udire da ogni labbro voci del nostro idioma, m'inteneriva; ma era un'emozione che m'invitava più al pianto che alla gioia. Quante volte in carrozza mi copriva colle mani il viso, fingendo di dormire, e piangeva! Quante volte la notte non chiudeva occhio, e ardea di febbre, or dando con tutta l'anima le più calde benedizioni alla mia dolce Italia, e ringraziando il Cielo d'essere a lei renduto; or tormentandomi di non aver notizie di casa, e fantasticando sciagure; or pensando che fra poco sarebbe stato forza separarmi, e forse per sempre, da un amico che tanto avea meco patito, e tante prove di affetto fraterno aveami dato!
      Ah! sì lunghi anni di sepoltura non avevano spenta l'energia del mio sentire! ma questa energia era sì poca per la gioia, e tanta pel dolore!
      Come avrei voluto rivedere Udine e quella locanda ove quei generosi aveano finto di essere camerieri, e ci aveano stretto furtivamente la mano!
      Lasciammo quella città a nostra sinistra, e oltrepassammo.


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Le mie prigioni
di Silvio Pellico
pagine 201

   





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