Il cameriere (era un giovinotto di faccia sdegnosetta, veramente bresciana) mi guardò con disprezzante pietà.
Che cosa ha da sapere? Signore, non si tratta di Francesche. Si tratta d'una Francesca da Rimini unica. Voglio dire la tragedia del signor Silvio Pellico. Qui l'hanno messa in opera, guastandola un pochino, ma tutt'uno è sempre quella.
Ah! Silvio Pellico? Mi pare d'aver inteso a nominarlo. Non è quel cattivo mobile che fu condannato a morte e poi a carcere duro, otto o nove anni sono?
Non avessi mai detto questo scherzo! Si guardò intorno, poi guardò me, digrignò trentadue bellissimi denti, e se non avesse udito rumore, credo m'accoppava.
Se n'andò borbottando: "Cattivo mobile?". Ma prima ch'io partissi, scoperse chi mi fossi. Ei non sapeva più né interrogare, né rispondere, né servire, né camminare. Non sapea più altro che pormi gli occhi addosso, fregarsi le mani, e dire a tutti senza proposito: "Sior sì, sior sì!" che parea che sternutasse.
Due giorni dopo, addì 9 settembre, giunsi col commissario a Milano. All'avvicinarmi a questa città, al rivedere la cupola del Duomo, al ripassare in quel viale di Loreto già mia passeggiata sì frequente e si cara, al rientrare per Porta Orientale, e ritrovarmi al Corso, e rivedere quelle case, quei templi, quelle vie, provai i più dolci ed i più tormentosi sentimenti: uno smanioso desiderio di fermarmi alcun tempo in Milano e riabbracciarvi quegli amici ch'io v'avrei rinvenuti ancora: un infinito rincrescimento pensando a quelli ch'io aveva lasciato sullo Spielberg, a quelli che ramingavano in terre straniere, a quelli ch'erano morti: una viva gratitudine rammentando l'amore che m'avevano dimostrato in generale i Milanesi: qualche fremito di sdegno contro alcuni che mi avevano calunniato, mentre erano sempre stati l'oggetto della mia benevolenza e della mia stima.
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