Di quell'estro recondito e divino,
Che più tra il riso degli ameni campiChe nel fragor delle città sfavilla.
Ma l'estro sempre non traean da' belli,
Maravigliosi di natura aspetti.
Or contemplavan, bianchi di spavento,
Le tempeste che visitan la terraCome i ladroni, e menan beffe al pianto
De' poveri, cui tutto han divorato;
Or lunge ramingavano, e sui laghi;
E sui precipitevoli torrentiE sulle oceanine onde le spume
Ivan solcando ne' perigli, all'urtoPiù feroce de' venti, allor che il legno
E s'innalza e sprofondasi impazzato,
E qual degl'imbarcati urla, qual pregaCon pentimento e con secrete angosce,
Quale il nocchiero interroga, e il nocchieroNon risponde, ma sibila convulso.
Oltre a tai casi di terrore, a cuiAldigero e Romeo s'eran per lungo
Vario peregrinar dimesticati,
Da' lor nobili cuori assaporataEra la voluttà delle battaglie:
Nelle imprese santissime, e il terroreConoscean delle stragi, e l'alta febbre
Della sconfitta, e del trionfo i gaudii.
E sovente il canuto ad Aldigero
Avea parlato questi detti:
- A' vatiUopo è molto veder, che terra e cielo
Offran lor di magnifico e tremendo,
E ciò che s'è veduto indi in solingheOre volger nell'alma, conversando
Colla propria mestizia, e colle sacreMemorie degli estinti, e col Signore
Eccoli ambi in Verona. Ivi li trasseLa fama dell'eccelso intendimento,
Che tanti spirti còngrega da milleContrade lontanissime, e la fama
Delle regali, portentose pompe.
Spalanca i bei cilestri occhi Aldigero
Nel vasto anfiteatro, inclito avanzoDegli antichi Romani. Oh quanta folla
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Poesie inedite
di Silvio Pellico
Tipografia Chirio e Mina Torino 1837
pagine 291 |
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