Indi attendeaIl ritorno del messo, e d'una sala
Passava in altra irrequïeto, e indugioSoverchio gli sembrava.
- Il furibondoSdegnasse dare all'invïato ascolto?
O frodoloso intento, o vil lusingaD'animo impaurito ei sospettasse,
E rispondesse coll'atroce insultoDi vïolar con carcere o con morte
La sacra testa dell'araldo mio?
Fellon! Guai se ciò fosse! A molta sceseMansuëtudin questo cor; ma un cenno,
E rïascender lo vedresti ad odioMaggior del tuo, più spaventoso, eterno!
Che dico? Bassa villania in quell'almaInebbrïata da gigante orgoglio
Non può capir. Abbietto spirto io sonoChe immaginar sì turpe fatto ardisco.
Intenerito si sarà; lung'oraColmerà di dolcissime domande
E d'onoranza il mio scudier; seguirloQui vorrà forse, o rattenuto or fia
Da momentanee cure. A mezzo soloEsser seppi magnanimo. Io medesmo,
Come la donna mia mi consigliavaIo, non un messo, a lui mover dovea.
Oh! alla mia vista uopo ad Irnando certoStato non foran più parole; in braccio
Gettato a me sariasi, e senza vaneSpiegazïoni, e dolorose, entrambo
Rïappellati ci saremmo amici.
Così tra sè il bramoso. Ed evitava,
Per nasconderle il suo perturbamento,
Della diletta sposa il dolce incontro.
Ei cammina a gran passi; o nella sediaBreve momento s'agita, e risorge
Tosto con ansia ad amor mista e ad ira,
Or all'una effacciandosi, or all'altraDelle fenestre, or fuor della ferrata
Negra sua porta uscendo, e non badandoAl can che gli si appressa, e rispettoso
Scuote la coda, e abbassa il ceffo, e speraDalla man signorile esser palpato.
Dai merli del terrazzo alfin gli sembra
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Poesie inedite
di Silvio Pellico
Tipografia Chirio e Mina Torino 1837
pagine 291 |
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Irnando
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