Ei non per beffeA me mandò que' freddi intercessori
Che sì mal peroravano, e quel troppoZelante messagger che m'inaspriva
Col suo ardimento? E ch'altro volli io maiCh'esser amato da colui ch'io amava?
D'odiarlo io giurava, e non potea!
Ma e se la tua benignità, Ildegarde,
Ti traesse in error! S'ei mentre alcunaRammemoranza di me pia conserva,
E quasi m'ama nel passato ancora,
Pur qual son m'esecrasse, ed appellarmiCollegato di vili anco s'ardisse?
Se sconsigliati egli dicesse i passiChe al mio castello hai mossi, e dall'irato
Cor prorompesse: "Amar non posso, Irnando!
Amarlo più non posso!"
I dolorosiDubbii vieppiù son da Ildegarde sgombri,
Col ricordar sull'amicizia anticaQuesto o quel detto di Camillo.
- Io dunqueEra il superbo! esclama il cavaliero:
Espïar debbo mia ingiustizia. In guerraLunge da me l'amico mio periglia;
Ad aïtarlo di mie lance io volo.
E i suoi fidi raguna, ed abbracciateLa palpitante Elina ed Ildegarde
E i pargoletti, in sella monta e parte.
Per molti dì le due vicine a garaSi consolavan, si pascean di speme,
E alterne visitavansi, aspettandoDe' baroni il ritorno, o messaggero
Che di lor favellasse. Ascondon ambeIl lor perturbamento, e sol ciascuna,
Quando al proprio castel siede romita,
Numera i giorni ed angosciata piange.
Quella dicendo: "Oh non avess'io maiConosciuto Ildegarde! Ella funesta
Forse è cagion che il mio signore è spento!"
L'altra a Dio ripetendo: "Il mio Camillo
Salva, e s'a me rapirlo è tuo decreto,
Deh ch'io presto lo segua, e per mia causaVedova Elina ed orfani i suoi figli
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Poesie inedite
di Silvio Pellico
Tipografia Chirio e Mina Torino 1837
pagine 291 |
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