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      - Oh che facesti, sposo mio? prorompeLa fervida Romana; un altro, un altro
      T'eri foggiato e l'abborrivi. Io pure,
      Qual lo foggiavi, l'abborrìa; ma il mostroChe innanzi agli alterati occhi ci stava,
      No, non era quel pio, cui sì diletteSon dell'infanzia le memorie tutte,
      Cui tu sempre sei caro, e che sì caroAd Ildegarde non sarìa, se iniquo.
      - Sarebbe ver? balbetta Irnando; e il ciglioGli si rïempie di söave pianto.
      Ei m'amerebbe ancora? Ei non per beffeA me mandò que' freddi intercessori
      Che sì mal peroravano, e quel troppoZelante messagger che m'inaspriva
      Col suo ardimento? E ch'altro volli io maiCh'esser amato da colui ch'io amava?
      D'odiarlo io giurava, e non potea!
      Ma e se la tua benignità, Ildegarde,
      Ti traesse in error! S'ei mentre alcunaRammemoranza di me pia conserva,
      E quasi m'ama nel passato ancora,
      Pur qual son m'esecrasse, ed appellarmiCollegato di vili anco s'ardisse?
      Se sconsigliati egli dicesse i passiChe al mio castello hai mossi, e dall'irato
      Cor prorompesse: "Amar non posso, Irnando!
      Amarlo più non posso!"
      I dolorosiDubbii vieppiù son da Ildegarde sgombri,
      Col ricordar sull'amicizia anticaQuesto o quel detto di Camillo.
      - Io dunqueEra il superbo! esclama il cavaliero:
      Espïar debbo mia ingiustizia. In guerraLunge da me l'amico mio periglia;
      Ad aïtarlo di mie lance io volo.
      E i suoi fidi raguna, ed abbracciateLa palpitante Elina ed Ildegarde
      E i pargoletti, in sella monta e parte.
      Per molti dì le due vicine a garaSi consolavan, si pascean di speme,
      E alterne visitavansi, aspettandoDe' baroni il ritorno, o messaggero


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Poesie scelte
di Silvio Pellico
Edizioni Buadry Parigi
1840 pagine 149

   





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