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      Le mura verdastre erano marcate da segni fatti con dei chiodi: forse delle memorie, forse delle maledizioni. In cima alla scala, sulla soglia, nel vuoto della porta, staccandosi in nero per la luce che lo rischiarava di dietro, tenevasi ritto il carceriere. Era un vecchio.
      - Hai dormito bene, ragazzo mio? - mi chiese egli con una voce melliflua che mi diede un brivido, voce che rassomigliava al dolce nicchiar della tigre quando giuoca coi suoi piccoli.
      Lo guardai, salendo, alcuni gradini, e mi fermai d'un tratto vedendolo indietreggiare di qualche passo.
      - Perfettamente, risposi, e voi, babbo?
      - Malissimo: una pulce mi ha dato rovello. Ma tu devi aver fame, povero figliuolo, - continuò coll'istesso tuono di voce.
      Io avevo preso l'abitudine, trovandomi in situazioni ardue, dinanzi a cose od a persone che non comprendevo bene, di recitare una parte che si presta a tutte le evoluzioni: la fatuità. La fatuità è un terreno neutro da cui puoi prendere qualunque mossa. Un passo in dietro, è la melensaggine: sei Antonio. Un passo avanti, è lo spirito: sei Cesare o Alcibiade. Un passo da una parte, sei uno sciocco: Sansone o Goliath. Uno dall'altra, è l'arguzia pretenziosa, è Salomone. In breve, dal punto centrale della fatuità si può entrare in tutte le altre parti senza sforzo, ed avere il tempo di scandagliare, di comprendere, di decidersi, senza nulla compromettere storditamente. Così, per esempio, alla domanda singolare del carceriere, io risposi:
      - Fame? neppur per idea. Finisco di pranzare.


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Memorie di Giuda
di Ferdinando Petruccelli della Gattina
Editore Treves Milano
1883 pagine 551

   





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