Nonpertanto, io non era contento della mia sorte. Sapevo che ero nobile, e che potevo aspirare a tutto; la condizione di mio padre, l'omicidio che aveva commesso, la santa vendetta che aveva fatto del suo oltraggio, l'obbligavano a nascondersi, e mi forzavano a tacere il nostro nome e restare contadini. Io mi ribellava contro il destino, e mi preparava una rivincita, coll'istruirmi.
Quando tutta l'Ungheria risenti come una specie di scossa elettrica alle scintille-folgori delle strofe di Petöfy, io balzai come gli altri, mentre il viso dell'Austria allibiva dal pallore dello spasimo. Domandai: Chi è codesto possente, che muove le capanne ed i castelli, le capitali ed i villaggi, le fanciulle ed i soldati? Mi risposero: È il figlio di un oste-beccaio, un istrione malriescito!
La mia anima scoppiò.
Io poteva arrivare a tutto.
Mio padre indovinava la vita interna del mio spirito. Le rughe del suo fronte si oscuravano. Egli sapeva che mi aveva serrato al collo la gogna del plebeo, fino a quando egli sarebbe vissuto, e forse anche dopo la sua morte, se la degradazione, che seguiva la condanna, si fosse riflessa sulla sua discendenza.
Quella domenica, io ronzava sulla piazza del villaggio, fra le quattro chiese che si guardano e si fanno un po' di smorfia: la Greca, la Cattolica, la Protestante e la Sinagoga. Un cavallo, montato da una ragazza vestita d'una amazzone verde, il viso nascosto da denso velo, passò di galoppo, e m'inzaccherò. Due altri cavalieri la seguivano: il principe di Nyraczi ed un domestico.
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