Quella pena era il disonore, era la mia morte morale. Gli occhi di mio padre, iniettati di sangue, lanciavano folgori; le sue labbra, livide e gonfie, tremavano. Tutti i tratti della sua fisonomia s'increspavano come sotto una scossa elettrica. Balbettò delle parole, che non furono comprese. Le sue narici allargate lasciavano passare una respirazione a sobbalzi, tumultuosa. Temetti un momento che fosse fulminato da un colpo d'apoplessia.
I giudici, osservando la trasformazione terribile di quella bella testa di vecchio, i cui bianchi capelli si rizzavano sulle tempie, si fermarono a fissarlo, attendendo che potesse riacquistare la parola. Sembrava evidente ch'egli aveva a dire qualche cosa. Si fece silenzio. Io cadeva accasciato sotto il peso della mia disgrazia La sentenza non ammetteva appello. Eppure mio padre taceva ancora. Il presidente, stanco di quel silenzio, fece un segno. I gendarmi misero la mano sulla mia spalla, e furono per condurmi nel cortile ove si doveva eseguire la condanna.
- Fermatevi, gridò alla fine mio padre, facendo uno sforzo supremo sopra sè stesso.
Il presidente fece un altro gesto, le mani dei gendarmi mi lasciarono libero.
- Voi cercate da tre anni colui che punì, e poi uccise il colonnello conte di Schaffner?
- Vi sono mille fiorini di premio a chi lo darà in mano alla giustizia, rispose il presidente.
- Ebbene, continuò mio padre, l'uomo che cercate sono io.
- Voi?
- Io stesso; ma io sono nobile, io sono conte. Voi non potete infliggere la pena del bastone a mio figlio.
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Schaffner
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