Nel tuo nome, o Dio degli Ungari,
Noi giuriamo,
Noi giuriamoL'empio giogo di spezzar.
- Lo giuriamo, ripetè la folla, ed intuonò l'intiero ritornello, illuminandolo di una musica improvvisata, ed aggiungendovi: Viva l'Ungheria! viva la libertà!
Quando io, alla tavola degli ufficiali, lessi il racconto di questa scena ed il canto di Petöfy, che io pel primo aveva ricevuto, non restò più nè un bicchiere nè un tondo sulla tavola: tutto fu gettato in aria, come per lo scoppio d'una bomba. All'indomani il colonnello, informato di questa scena, ci mise tutti agli arresti. Sua moglie ci inviò dello Champagne e dei fiori. Noi spargemmo in mezzo ai soldati la poesia di Petöfy.
Da quel giorno, la nostra vita fu un accesso di febbre in permanenza. Le notizie della nostra patria si succedevano sempre migliori. Il Comitato di salute pubblica decretava, organizzava, armava la Guardia nazionale; un Ministero ungherese responsabile era nominato, e ne facevano parte Luigi Batthyany, il cavaliere dell'Ungheria; Deak, che più tardi doveva essere il Fabio dell'autonomia ungherese; quello Stefano Szechenyi, che durante trent'anni fu alla testa di tutti i progressi, di tutte le audacie, di tutte le grandi cose e le grandi idee del suo paese, e che la catastrofe della rivoluzione doveva colpire di follia; il principe Eszterhazy, il quale, essendo in missione come deputato della Dieta presso l'arciduca Francesco Carlo, padre dell'imperatore attuale, e pregato di attendere perchè l'arciduca pranzava, sclamò: "Sua Altezza può ben mangiare un piatto di meno, quando la monarchia è in pericolo!
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