Cinque minuti dopo, io usciva dal palazzo, e mi parve di emergere da una stella e cadere in una notte eterna. Camminai forte: avevo bisogno d'aria e di spazio. La mia vita straripava, mi soffocava. Mi fermai un momento per respirare, all'estremità di quello splendido ponte sul Danubio che congiunge Pesth a Buda. La giornata era raggiante. Il cielo mi sembrava vestito a festa, di un azzurro più limpido del solito onde rallegrarsi della festa del mio cuore. Il Danubio, dallo sguardo giallo, dall'andare tranquillo e linfatico, borbottava alcunchè di rauco e d'indeterminato, ma non aveva già quell'accento di collera che s'indovina nel brontolìo del Po e del San Lorenzo. Al di là, la roccia appesa e misteriosa che porta la cittadella, e sovrappiomba nel fiume. All'indietro, delle brune colline dai poggi di vigna, tagliati da burroni, lungo i quali s'arrampicano i casini, le osterie, i caffè, le case rustiche dai campaniletti rabescati; e più lungi ancora all'estremo orizzonte, in mezzo ad un vapore violaceo, dei punti cerulei come una manata di turchesi, i primi spalti dei Carpazii. Io scorgeva tutto ciò in una volta, con uno sguardo interno, che avrebbe abbellito ed illuminato la bottega d'un carbonajo, allorchè una vettura traversò il ponte, ed una testa, coperta da un cappello da generale, si mise fuori per guardarmi: era il conte Lamberg.
Fu visto e riconosciuto.
Non durò che un lampo. Una folla, che sbucava non so donde, si gittò sopra di lui, rovesciò la vettura, i cavalli, il cocchiere, lo trasse fuori, lo trascinò, l'uccise, gli tagliò il capo.
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