Suonò la ritirata. Il cannone ricominciò l'opera della breccia.
Il 21 maggio, questa sembrò praticabile. All'alba l'attacco generale fu rinnovato, al grido formidabile di: Eljen a Magyar! La fanteria ungherese si slanciò di nuovo sulle mura. Noi corremmo alla breccia. Ci respinsero ancora. Gli altri Corpi ruppero la resistenza in tutti i punti. La pompa fu presa da Kmety, che l'aveva mancata due volte. Noi ritornammo all'assalto, e finalmente riescimmo ad impadronirci della breccia, ed a salire sugli spaldi dei bastioni. Io m'era arrampicato in cima ad una scala. I soldati italiani della guarnigione ci porgevano la mano per aiutarci a montare. Io era sul punto di saltare sulla spianata, quando un ufficiale austriaco uccise l'italiano di un colpo di spada, e con un secondo colpo, traversandomi la spalla sinistra, mi precipitò sul terrapieno in mezzo ai mucchi di cadaveri. Ma la fortezza era nostra.
Ripresi i sensi all'ospitale del Tabor.
Görgey non prese parte all'azione: egli restò a grande distanza, nel quartier generale, sopra la collina Kis-Svàbhegy.
Mi assopii, dopo che la mia ferita fu medicata. Due ore dopo, mi risvegliai all'improvviso. Amelia serrava la mia testa sul suo cuore, ed appoggiava le sue labbra al mio fronte. Ella volle farmi trasportare in sua casa, o piuttosto nell'appartamento che la occupava nel palazzo di suo padre. Io mi opposi, e resistei tre giorni. Al quarto cedetti. Ciò fu causa di una violenta scena fra Amelia e suo padre, ed il primo passo verso la catastrofe che doveva inghiottirci tutti.
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